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Scritti di Daniele Senatore tratti dal suo
"Diario di un cittadino al di sopra di ogni sospetto"
Dall'epoca del mio innamoramento con il paese di Torrita Tiberina, quasi
nulla di eclatante è successo. La vita pacifica di un piccolo centro dove
tutto ciò che accade ha il senso del normale e il sapore della
rassegnazione ad una vita di "seconda scelta".
Gli infissi delle casa in alluminio anodizzato al posto del legno sono
l'unico evidente segno di "progresso". Le feste civili e religiose si
intrecciano quasi a permettere alla popolazione di confrontarsi in pubblico
invece di continuare a scannarsi nel rituale atavico del pettegolezzo
sotterraneo: unica risorsa culturale aggregativa.
La banda è l'unica risorsa culturale. Poche laceranti terzine di trombe e
tromboni danno, ogni due o tre mesi, un senso grottescamente caricaturale
alla mancanza di inventiva , di fantasia e di idee della "classe dirigente"
del paese.
I giovani non sanno che scegliere fra un look da finta trasgressione di
provincia - anche questa seconda scelta - scopiazzata da tabloidi di terza
scelta comprati o sbirciati in improbabili Bar da camionabile, gestiti da
avventizi venditori di lucum e da brevissime incursioni nelle sacche
periferiche di quella Roma del Basso Impero che sembra esistere solo per loro.
Il villaggio di Macondo descritto da Marquez in Cent'anni di solitudine ,
al confronto sembra Cambridge o Tubinga.
Il primo comizio elettorale della lista civica n.1 sembra uno stentato
lamento di Portnoy
Il primo comizio elettorale della lista civica n.2 (al potere da 17 anni)
si apre con la presentazione del programma fatta da un signore che si
rivolge ai presenti con fare da imbonitore. Non sembra esporre, ma vendere.
Non spiega una politica, ma la "consiglia per il bene della cittadinanza".
Nulla di più paternalistico e di meno rispettoso del libero arbitrio della
popolazione.
Viene d'obbligo ricordare un altro mirabile pezzo di Marquez: Morte al di
là del piacere.
Io, che ho sempre cercato l'aiuto di razionalisti, umanisti secolari,
marxisti e altri consimili movimenti religiosi, tralasciando tutti gli
altri, come offensivi della mia e della altrui intelligenza (in materia di
decisioni che riguardino il bene pubblico e non il mio interesse o
sentimento personale), ecco che mi sento nascere dal profondo un sentimento
di indignazione.
La prima reazione è quella di assaltare il banchetto dell'imbonitore: lo
sconforto, la timidezza congenita e la stupida fede nella ragione mi
frenano e mi impongono di appartarmi.
La mia notte torritana si affolla di incubi di ghigliottine, di comitati di
salute pubblica.
All'alba, come al solito, mi tranquillizza il panorama della valle del
Tevere e l'orizzonte&ldots; oltre il quale si nascondono Roma, il mare e l'infinito.
All'inizio del secondo comizio della lista n.2 mi sento calare sempre più
nel personaggio del convitato di pietra.
Ma ecco che un bellissimo canutissimo signore attacca a parlare come un
vecchio paternalista da partito democristiano anni 60.
Presenta un suo "scolaro" come il migliore degli alunni e commette un
gravissimo errore sia retorico che di linguaggio comune.
Non è difficile scoprire nelle parole del canuto l'ignobile ricatto che
fanno sempre i funzionari mandati in provincia dalla centrale del basso
impero.
Se voi non votate il mio pupillo io non vi faro avere i soldi della
regione. Discorso ovviamente sottostante a quello di facciata che suona
invece: "solo lui e i suoi compagni sono capaci di fare bene le cose ed
hanno la professionalità e i meriti e la cultura per confezionare le
domande in modo accettabile. E' un po' come dire: tanto il compito glielo
correggo io. E i voti li do io.
E' ovvio che a questo punto ti scatta la voglia di saltare al collo del
canuto e di gridargli in faccia "ma brutto gabelliere di quinta. Da venti
anni abbarbicato ad un posticino ottenuto con la 285 del mio amico
Berlinguer e quindi senza merito, ma per rango di partito e di governo".
Lo facevano i lacchè dei mandarini in Cina.
Solo i prussiani, da veri militari, non mandavano la persona, ma solamente
il Cappello, per sedare le rivolte. Bastava il simbolo del comando,
all'epoca, e poi si trattava di domare i finni e cimbri o gli estoni o i
partenni di Livonia, non poveri calabro-sabini.
Questa volta la notte mi porta fra gli incubi di ordinaria follia, le
figure dei principi Circassi e la loro usanza di massacrare e saccheggiare
mascherati&ldots; altrimenti la popolazione li avrebbe riconosciuti e risparmiati
in quanto principi.
All'alba un vago sapore di mandorle amare aleggia nella valle e mi ricordo
della Nube Purporea di Shiel e la invoco e invoco anche il suo regno di
Redondo, nel Caraibe, con ministro della guerra Apollinaire, Breton alla
cultura, etc.&ldots;
Daniele Senatore 1999